Stupore e meraviglia (Lc 1, 43)

Stupore e meraviglia (Lc 1, 43)

"A che debbo che la madre del mio Signore venga a me "

(Lc 1, 43)

 

Insieme alla confessione di fede, l'esclamazione di Elisabetta esprime in modo vivo il sentimento di chi si trova all'improvviso davanti al «mistero tremendo e affascinante», di chi si sente avvolto in un modo inspiegabile e inaspettato dalla maestà e dalla bellezza divina. La scoperta della grandezza di Dio provoca sempre nell'uomo una percezione rafforzata della propria nullità, un profondo senso di distanza, di inadeguatezza. Quando egli vede che questo Dio si degna di abbassarsi e rivolgersi a lui, lo stupore e lo smarrimento si fanno più forti. Nasce allora spontanea la domanda: «A che debbo che tu venga da me ?» (Lc 1, 43).

 

Questo sentimento è comune a molti.

Quando l'esperienza del divino attinge profondità, si essenzializza e diventa in qualche modo universale.

Isaia, quando ebbe quella straordinaria visione della gloria di Dio, esclamò confuso: «Ohimè! Lo sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,1).

È il sentimento creaturale, tipico di chi è visitato da Dio di sorpresa.

Agostino ha delle pagine bellissime a questo riguardo. Folgorato all'improvviso da Dio egli sente un «sacro terrore» e un «tremore per amore»; e Dio che lo fa «rabbrividire e ardere» allo stesso tempo[1].

 

Anche Maria ha fatto questa esperienza.

All'irrompere di Dio nella sua vita ella si sente indegna, consapevole della sua piccolezza e nullità. Il suo canto del Magnifica! È scaturito precisamente dallo stupore di fronte a questa sproporzione, a questa quasi assurda compresenza dei contrasti: la sua piccolezza e la grandezza di Dio.

La confessione di fede, di lode e di stupore pronunciata da Elisabetta è sintonizzata con lo stato d'animo di Maria e costituisce quasi un preludio al Magnificat.

 


[1] AGOSTINO, Confessioni XIV 17, in PL 32,832.


Maria Ko Ha Fong,

Lectio divina su Lc 1,39-45 in “Theotokos”, 1997, n° 1,

pp. 177-195 p. 192